Tra le prime misure scelte da Trump in ottica anti Obama, c’è anche una decisa sterzata verso il ritorno a fonti di energia tradizionali. L’idea del neo presidente degli Stati Uniti è quella di ridare spinta propulsiva all’economia americana, depotenziando le scelte ambientaliste della passata amministrazione e valorizzando fonti come petrolio, gas naturale, carbone ed energia nucleare.

In questa partita politica giocata dal presidente Trump, in controtendenza a quanto accade da tempo in questo settore, esistono diversi player: gli investimenti nell’ambito della ricerca e dell’industria, le scelte strategiche nazionali insieme agli accordi sottoscritti a livello mondiale e l’opinione pubblica internazionale, che diventa determinante in caso di votazioni nel proprio paese.

Tale stato di cose fa pensare che le scelte di Trump, volte a mettere in discussione i provvedimenti del suo predecessore nel campo delle politiche ambientali, per quanto influenti, potranno solo rallentare i processi di trasformazione già in corso verso l’impiego sempre più diffuso delle rinnovabili, ma non arrestarli del tutto.

E’ ragionevole pensare che i provvedimenti trumpiani, nonostante la grande risonanza mediatica, avranno un impatto diluito. Senza contare che tali scelte mettono in discussione 15 trilioni di dollari di investimenti in rinnovabili già intrapresi negli Usa. Si tratta di una strategia contraria alle attuali dinamiche di mercato, che vedono le energie pulite sempre più competitive, oltre che necessarie alla salvaguardia dell’ambiente.

Gli Usa hanno iniziato, in questo campo, un percorso che li vede isolati dal resto del Mondo. Più di 190 paesi infatti hanno firmato l’accordo di Parigi e sono improbabili defezioni da parte di altre nazioni, soprattutto considerando l’assenza di evidenze scientifiche che giustifichino una scelta simile. Il vuoto di leadership creato da Trump potrebbe inoltre essere colmato da qualche nazione che intenda posizionarsi come leader delle rinnovabili nello scacchiere mondiale.

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